La casa natale a Santo Stefano Belbo
ANTENATI
Ho trovato una terra trovando i compagni, una terra cattiva, dov’è un privilegio non far nulla, pensando al futuro. Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei, noi sappiamo schiantarci, ma il sogno più grande dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi. Siamo nati per girovagare su quelle colline, senza donne e le mani tenercele dietro alla schiena.
(primavera 1932)
Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia e mi riguardo con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme e ubertosa come una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si facevano i grandi falò, quelle ininterrotte e strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la strada, la strada che gira intorno alle mie vecchie vigne e scompare, alla svolta, con un salto nel vuoto[...]. Ero sempre arrivato soltanto a quest’orizzonte, a questi canneti [...], ma presentivo di là dal salto, a grande distanza, dopo la valle che si espande come un mare, una barriera remota (piccina, tanto è remota) di colline assolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio Paradiso, i miei Mari del Sud, la Prateria, i coralli, Ophir, l’Elefante bianco ecc.
Lettera a Fernanda Pivano – 25 giugno 1942.
Cartolina, raffigurante il panorama di Santo Stefano Belbo, che Pavese inviò a Giulio Einaudi.
Da bambino e ragazzo vissi in una vallata tra colline, poche, dai tratti famigliari. Le prime idee e i primi sentimenti mi si manifestarono là [...] Di là, il mondo cominciava a svelarmisi immenso e nei pomeriggi afosi tra i giochi talvolta già mi prendeva quell’aspirazione, che mi lasciava colla fantasia al di là di quelle colline lontane dietro un nome, una descrizione dei paesi che scoprivo nelle prime letture.
Taccuini, estate 1926
La collina di Moncucco, il “Colle” dei Mari del sud
I MARI DEL SUD, vv. 1-23
Camminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio.
Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge nelle notti serene il riflesso del faro lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino...” mi ha detto “...ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode e poi, quando si torna, come me a quarant’anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”. Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso colle, è scabro tanto che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi.
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Atto di nascita
Pavese da piccolo
Il padre Eugenio Pavese, cancelliere al Tribunale di Torino (di lui e della famiglia paterna si occuperà nella poesia Antenati della primavera 1932)
La madre Consolina Mesturini, figlia di ricchi commercianti di Ticineto Po
Il cugino Silvio Pavese |