I libri in maschera. Luigi Pirandello e le biblioteche - Contro D'Annunzio

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I libri in maschera. Luigi Pirandello e le biblioteche

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Affresco nelle stanze della casa natale, dipinti da Innocenzo Pirandello, fratello minore di Luigi.

Affresco nelle stanze della casa natale, dipinti da Innocenzo Pirandello, fratello minore di Luigi.

 

Carte e documenti

Carte e documenti

Carte e documenti sulla scrivania.

Lettera inedita di d’Annunzio a Pirandello. Roma, 11 ottobre 1917 (Collezione Eredi Lietta Pirandello).

Lettera inedita di d’Annunzio a Pirandello. Roma, 11 ottobre 1917 (Collezione Eredi Lietta Pirandello).

Lettera inedita di d’Annunzio a Pirandello. Roma, 11 ottobre 1917 (Collezione Eredi Lietta Pirandello).

Lettera inedita di Mussolini a Pirandello (Collezione Eredi Lietta Pirandello).

 

Pirandello portavoce della politica estera

Pirandello portavoce della politica estera italiana.

 

Pirandello sorvegliato dalla Polizia Politica fascista.

Pirandello sorvegliato dalla Polizia Politica fascista.

 

Virgilio Marchi, Bozzetto scenico per La nuova colonia di Luigi Pirandello (1928). Genova, Museo Biblioteca dell’Attore.

Virgilio Marchi, Bozzetto scenico per La nuova colonia di Luigi Pirandello (1928). Genova, Museo Biblioteca dell’Attore.

 

Pascoli è morto da un pezzo, non ancora sessantenne; d'Annunzio invece é tutt'altro che liquidabile nel 1921: alla fine dell'anno, con la data simbolica del 4 novembre uscirà, il Notturno «comentario delle tenebre» al quale non mancano i connotati di una dirompente modernità. E non a caso é un best-sellers.
Così, anche dopo la morte di Pascoli, e anche dopo i correttivi che non fanno che decantare, in fondo, l'antico giudizio espresso intorno a Myricae, Pirandello non riuscirà ad affrancarsi dalla convinzione del «complotto» ordito contro di lui. L'intramontabile d'Annunzio fa rivivere Pascoli. Se il Vate usurpatore ora domina il campo, incontrastato Pirandello non dimentica che i due «fratelli» amici e nemici si sono tenuti bordone a vicenda, escludendolo.
Ancora ai soliti foglietti di laboratorio occorre rivolgersi per imbattersi nello sfogo aperto di un risentimento sempre vivo . Non datati, gli appunti si collocano dopo il 1912 l'anno della morte di Pascoli, ma forse prima del 1915, data l'assenza di ogni accenno al poeta soldato che cercherà di riscattare il discutibile divismo di sempre vestendo i panni del salvatore della patria.

Nessuna allusione, infatti, all'«avventura» dannunziana che al contrario informa le accuse mosse contro il retore nel 1920, nella commemorazione di Verga, davvero incomprensibile se non sullo sfondo dell'impresa di Fiume. Qui, in combutta, due poeti si contendono la successione di Carducci, e a dispetto della scarsa presenza di opere di d'Annunzio nella sua superstite Biblioteca, Pirandello rivela un'attenta lettura del Commiato, la lirica con la quale Alcyone (1903) veniva dedicato “all’ultimo figlio di Virgilio”.

Di antico e nuovo livore si colorano tre foglietti dispersi e mutili:
«Tra i tanti bisogni, pare che il popolo italiano abbia anche questo, perentorio: di sapere chi debba di tempo in tempo riconoscere e considerare suo maggior poeta vivente.
Morto Giosué Carducci, che per tale fu meritatamente riconosciuto e considerato lungo tempo, il popolo italiano si trovò davanti due candidati al posto di maggior poeta vivente: Gabriele d'Annunzio e Giovanni Pascoli.

I due candidati si erano già tra loro riconosciuti e considerati. L'uno su per una costa, l'altro su per l'altra, tutti e due alla fine si sarebbero ritrovati su la vetta del monte, s'intende della gloria.
Morto Giosué Carducci, i due candidati ebbero la cattiva ispirazione di darsi la voce (oh, velata di pianto) da una costa all'altra del monte
- Fratello... - Ci siam noi, coraggio!
- Fratello... - Tu...”
rispose loro un urlo di protesta e d'indignazione del popolo sinceramente commosso. Poi l'uno, senza aspettar l'altro, ghermì dal letto del morto una torcia funeraria e saltò su la vetta, solo.
La chiamò fiaccola, lui, quella torcia da morto, e si mise ad agitarla lassù, come tutti sanno, proclamandosi da sé unico erede; e nessuno, a nome del testamento del poeta, rispose no.

Ma si trattava, in fin dei conti, della gloria.
Io non intendo di negare a Gabriele d'Annunzio il titolo e il vanto di maggior poeta vivente d'Italia, tanto più che egli, a mio modo di vedere, risponde in tutto e per tutto al tipo del letterato italiano quale la tradizione così detta classica, o la retorica per consolazione nostra lo foggiava: cioè un letterato che poteva anche darsi la pena di pensare per conto suo, purché i pensieri tolti in prestito altrui sapesse convenientemente vestire d'una forma che, non nata dentro a un tempo col pensiero, doveva naturalmente esser soltanto esteriore, senza intimità quindi e, per inevitabile conseguenza, artificiosa; un letterato la cui arte, priva d'un contenuto ideale suo proprio, doveva per forza ridursi a una elegante mera esercitazione verbale, di cui essa, la Retorica»".

La partita con d'Annunzio non si chiude però sulla livida ma rassegnata constatazione del suo primato retorico bene accetto dagli Italiani. Quando il «Natale di sangue» sta per concludere la «penultima ventura», la commemorazione degli ottant'anni di Verga offre a Pirandello, il 2 settembre 1920, l'opportunità di intervenire contro il Vate di nuovo in primo piano con la guerra e ancor più con la Reggenza di Fiume: un protagonismo che non poteva essere più schiacciante.
Opposto allo stile di «cose», ecco lo stile di «parole» - come dire il dantismo e il petrarchismo perennemente antitetici nella nostra storia letteraria. E inoltre Pirandello ribadisce qui un antico assioma: «la vita o si vive o si scrive», ma riferendosi più a sé che a Verga, perché é lui, controfigura del grande conterraneo, ad aver patito l'ingombrante presenza di d'Annunzio.
Pronunciando il Discorso catanese, alla vigilia del trionfo teatrale, il frustrato rancoroso non ignora quanto l'amico Tozzi ha appena affermato: la «salute» di Verga può essere apprezzata solo dopo la «malattia» di d'Annunzio.
Pirandello gli farà eco: «sazi e stanchi» della «troppa letteratura» dannunziana, ora i giovani si rivolgono al sobrio maestro siciliano. E infine concluderà:
«[...] la vita o si vive o si scrive. Dove non c'é la cosa, ma le parole che la dicono; dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c'é, non la creazione, ma la letteratura, e anche letterariamente, non l'arte ma l'avventura, una bella avventura, che si vuol vivere scrivendola o che si vive per scriverla».
L'insistenza sull'«avventura» va decifrata attraverso la vicenda fiumana: la massima ribalta sulla quale d'Annunzio sia riuscito a esibirsi. Ma se brucia a Pirandello, quest'ennesima rappresentazione in grande stile veniva salutata - ironia della sorte - proprio dal Verga e proprio mentre l'erede designato lo giudica depresso dall'abile millantatore, vittima com'é del falso oro che ha abbagliato gli italiani. Verga approva la marcia di Ronchi e soffre per la «vittoria mutilata» senza mezzi termini, aprendosi con la Sodevolo il 4 ottobre 1919:
«[...] La sola cosa che mi resta é il pensiero di questa nostra Patria che lotta con amici e nemici in questo momento. Ma vivaddio [...] ci sono degli uomini che hanno del ginger come d'Annunzio»,
e insisterà, anche lui contro «Gegoia», il «basilisco Nitti», indirizzando, il 15 maggio 1920, un entusiastico saluto all'impresa di Fiume:
«Viva d'Annunzio, e chi sta con lui».
Di ginger, certo, abbonda il Reggente del Carnaro e visto così, nel retroscena, il Discorso di Pirandello si risolve davvero, per qualche aspetto, in una commedia degli equivoci...