1910-1925 Mario Tobino nasce a Viareggio, il 16 gennaio 1910, secondo di quattro figli. La madre è di Vezzano Ligure, discendente da una famiglia di proprietari terrieri; ligure è anche il padre, di Tellaro, un borgo di pescatori. E’ la professione di farmacista del padre, tuttavia assai poco legato alle convenzioni borghesi, a determinare la trasferta definitiva nella cittadina versiliese. L’infanzia di Tobino trascorre qui felice, tra i giochi con gli amici del “Piazzone” viareggino: un vasto spiazzo erboso circondato da platani, proprio davanti alla farmacia paterna, dove nelle belle giornate, dopo la scuola, si consumano allegre risse sino al tramonto. I compagni, dai nomignoli pittoreschi (Ganzù, Truppino, Adriatico, Tanaca, Tono...), sono figli di poveri pescatori e piccoli artigiani: “erano loro i miei grandi amici”ricorderà lo scrittore nelle memorie di quel tempo incantato e perduto “con i quali, se un altro destino non fosse intercorso, forse sarei stato felice tutta la vita, e forse non avrei neppure scritto, dato che vivere in quel modo era la completa poesia”. 1926-1931 Dopo aver frequentato a Viareggio le scuole elementari e quelle ginnasiali sino alla quarta, la turbolenza dell’adolescente, che comincia ad essere svogliato e a preferire le gite in barca agli studi, suggerisce ai genitori il correttivo del Collegio. A Collesalvetti Tobino patisce, come dice, la sua prima “istituzione segregante”. Ma proprio a questi anni risalgono le sue passioni letterarie. Oltre a Dante, che resta una lettura ininterrotta durante tutta la vita, “scoprii Machiavelli, mi accorsi dello stile: non si poteva dire con meno parole e così definitive, tali da creare un oggetto nuovo, più forte della realtà. Nello stesso periodo fu amore per Tacito, il condensatore e insieme traduttore in musica solenne della passione per la storia. Incappai in Orazio, seppi l’eleganza, raggiungere sorridendo la leggera danza cancellando la tanta precedente fatica. Allora, come sarà successo a molti altri, divenne una fuga, un rincorrere: bevvi i russi, i francesi, gli americani; mi sconsolai alla povertà del nostro teatro, messo in paragone dall’inglese. Sempre, sempre mi guidò Dante e mai mi dimenticai di Don Lisander”. 1931-1936 L’anarchico autodidatta non poteva certo configurarsi come allievo diligente. La licenza liceale è infatti conseguita da privatista, a Pisa, dove poi subito si iscrive alla facoltà di medicina della città anche se è già avvenuta la sua conversione alla poesia e molti quaderni e fogli sparsi contengono i suoi primi versi ancora acerbi. Accanto ai volumi di anatomia, ecco dunque le riviste letterarie di punta, e in particolare quelle più in sintonia con il suo vitalismo ribelle: “Il Selvaggio” di Maccari e “L’Italiano” di Longanesi, periodici di fronda, nei quali l’ironia diviene un efficace antidoto al fascismo. Ma la vocazione letteraria si rafforza con il trasferimento, nel 1933, all’Università di Bologna. Se qui si laurea nel 1936 in medicina, sotto i portici di via Zamboni incontra Giuseppe Raimondi. Letterato e “stufaio”, sodale di Giorgio Morandi e di Vincenzo Cardarelli, Raimondi sembrerà allo studente toscano una reicarnazione degli antichi amici del “Piazzone”. Anche lui di origini popolari e di carattere rissoso, proviene tuttavia dalla “Ronda”, la rivista che negli anni Venti ha rilanciato Leopardi, e ora coltiva quella “religione delle lettere” che caratterizza certi scrittori negli anni Trenta, lontani dall’asservimento al fascismo. Proprio nel 1934, dopo aver letto Rimbaud e Niettzsche, Tobino pubblica il primo volume di versi, Poesie. 1937-1939 Nel 1937 è a Firenze come allievo ufficiale medico. Conseguita la nomina a sottotenente, presta servizio fino al settembre 1938 nel V Reggimento Alpini a Merano. Al rientro fa subito pratica psichiatrica a Bologna, specializzandosi in neurologia, psichiatria e medicina legale, spostandosi poi ad Ancona e a Gorizia. Nel 1939 esce la seconda raccolta di poesie, Amicizia, che prelude al grande scrittore a venire, intavolando già il binomio letteratura-sofferenza mentale. Tobino è persuaso della “primitiva bontà della natura”, comunque si manifesti, e che occorra assecondarla piuttosto che costringerla a combaciare con modelli sociali precostituiti. “La sua mente” dirà di lui Raimondi “che s’imbeve dei sensi più forti, esposta ad esprimere con intensità gli affetti, a subire la violenza delle impressioni, è capace di lasciarli rientrare in calma, per riflettere l’immagine tranquilla”. 1940-1942 “Nel 1940 è guerra anche per lui” (è Tobino che parla) “Libia. Due anni tra oasi, deserti, fuoco, sole, visioni del dolore”. Condivide profondamente la dimensione cameratesca e trova fra i soldati “colui che a volte fa brillare/ come una primavera/ la sua intelligenza”. A causa di una ferita, che lo lascerà lievemente invalido, rientra in patria nel 1942, dove subito presta servizio presso il manicomio di Lucca e, alla fine dell’anno, presso quello di Maggiano che diventerà Magliano nella trasfigurazione letteraria. L’ispirazione poetica, dopo i mesi di guerra, lo induce a scrivere, con rapidità e quasi con urgenza, in modo che escono contemporaneamente la raccolta di poesie Veleno e amore, dedicate all’esperienza africana, Il figlio del farmacista, una sorta di autobiografia in terza persona, e La gelosia del marinaio, racconti-ritratti di personaggi conosciuti in gioventù a Viareggio: gente di mare, per lo più, dalla vita avventurosa e fuori da ogni consuetudine borghese colti in un ossessione erotica liminale alla follia. 1943-1945 Decide di aderire alla Resistenza, in circostanze che poi narrerà nel Clandestino, edito nel 1962. “Il periodo più bello della mia vita” confesserà un giorno, quando la memoria tende ad attenuare i contrasti del passato “fu nel clandestino, nella lotta di liberazione nazionale, dove finalmente avevo la mia bandiera”. 1946-1952 Continua ad esercitare la professione medica come primario psichiatra nel manicomio di Maggiano, ma la scrittura accompagna, inscindibile dalla cura dei malati, i suoi giorni tutti dediti agli altri, all’osservazione di menti sconvolte che a suo avviso, però, raggiungono una loro “poetica” normalità. Con il titolo 44-48 pubblica una nuova raccolta poetica nel 1949, quindi nel 1950 è la volta di Bandiera nera, romanzo ambientato nel 1936, satira feroce della corruzione fascista, e l’anno successivo L’angelo di Liponard, racconto di una fantastica vicenda di marinai in cui Viareggio compare con il nome di Medusa. Al 1952 risale Il deserto della Libia, diario, ma non senza punte di viva invenzione, dei due anni libici, già cantati nei versi e ora rimeditati: perché partecipare alla guerra ingiusta? “Altrimenti” avverte Tobino “quando verrà il popolano dirà: al tempo che la tirannia mi avvolse di nebbie tu non mi aiutasti a tenerle lontane, quando venne la guerra mi lasciasti morire”. 1953-1962 Le Libere donne di Magliano, romanzo del 1953, sembra un punto d’arrivo a lungo preparato. Già Il Figlio del farmacista si chiudeva con la narrazione di alcuni casi psichiatrici, racconti intervallati da ampie capate idilliche sul paesaggio viareggino: la natura partecipe e sempre “buona” faceva allora da controcanto a un’analisi sottile, calligrafica, secondo i dettami della “prosa d’arte” che perdurano anche nel dopoguerra. Ma nel romanzo incentrato sull’esperienza di Maggiano (Magliano nella finzione narrativa), Tobino realizza appieno una sua vocazione nella quale non è contrasto tra professione e poesia: “Avevo fin da ragazzo” ammette dichiarando la sua poetica più autentica “predilezione e interesse a capire i pensieri altrui. Così per poter vivere e fare lo scrittore sono divenuto psichiatra”. Perciò le Libere donne è steso nel registro diaristico e insieme lirico, al cui centro sta la “pazzia senza peccato”, la “perenne innocenza” dell’alienato, o meglio dell’alienata, in cui perdura, anche in vecchiaia, la condizione infantile. La cornice del racconto, che si presenta volutamente frammentario (una serie di casi clinici), è ottenuta attraverso il paesaggio, mediato dagli infermieri: i soli per i quali esiste lo scorrere del tempo e il mutare delle stagioni. La felicità dell’esito certo è connessa alla totale adesione di Tobino alla realtà del manicomio: “La mia vita è qui. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, sono ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare”. 1954-1962 Pubblica Due italiani a Parigi, racconto di un viaggio dove ogni esperienza è rapportata alla terra d’origine. Ed ecco dunque una Parigi vistosa, sfacciata, consumata dal vizio in cui resta ben poco di autentico e che i due viaggiatori, volutamente provinciali, finiscono per trovare intollerabile. Con l’Asso di picche, del 1955, raccoglie antologicamente, salvo qualche aggiunta, le poesie stampate a partire dal 1934: “Ma i poeti/ giocano l’asso di picche,/ stringono la donna matta,/ tengono il sette rosso,/ cantano,/ nessuno li può morire”. Dell’anno successivo è il racconto, una saga della famiglia materna, la Brace dei Biassoli, composto, afferma Tobino “per amore di mia madre”. All’autobiografismo, ma colto nel momento epico della Resistenza, partecipa anche il Clandestino, rievocazione della lotta contro il fascismo, non senza qualche punta di amarezza. Gli anni difficili, difficili per le scelte politiche, quando il campo non è nettamente diviso fra bene e male, verranno in seguito, come recitano i versi posti in epigrafe: “Fu un amore, amici/ che doveva finire;/ credemmo che gli uomini fossero santi,/ i cattivi uccisi da noi/ [...] / Con pena, con lunga ritrosia,/ ci ricredemmo./ Rimane in noi il giglio di quell’amore”. 1963-1971 La vena di Tobino si fa via via con gli anni sempre più nostalgica e rammemorativa. Alle radici viareggine, in chiave psicologica più che sociale, è dedicata la prosa Sulla spiaggia e di là dal molo, anche questa a lungo preparata dai versi epigrammatici del passato: “Non si estinguono i sogni e le idee/ e le sanguigne passioni dal luogo/ dove nacquero e vissero,/ ma continue vivono,/ con terribile forza”. Nella campagna toscana, alla quale ci si rivolge con i toni dell’idillio, è ambientata Una giornata di Dufenne, del 1968, mentre il 1971 segna il ritorno al tema della pazzia, quasi un prolungamento delle Libere donne di Magliano, con Per le antiche scale. Tobino è ormai uno scrittore celebrato, con un vasto seguito di lettori, al quale non mancano i premi letterari, dal Viareggio, allo Strega, al Campiello. 1973-1991 Le ultime opere, che coronano una vecchiaia ancora operosa, sempre attiva sia nella professione medica che nella vocazione letteraria, si rivolgono ad antiche esperienze amorose (Perduto amore, 1979), con qualche escursione nel racconto (La ladra, 1984). Da segnalare Biondo era e bello (1974), in cui Tobino si cimenta in una atipica biografia di Dante Alighieri. Pur non essendosi mai sposato, ha fatto di Paola Olivetti la compagna della sua vita, che gli resta accanto fino alla morte. |