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Ajace

fotografia Foscolo prese l’impegno di scrivere una tragedia per la compagnia di Salvatore Fabbrichesi nel luglio del 1809; alla fine dell’anno aveva apparentemente scelto l’argomento, ma, travolto dalle polemiche letterarie con il partito filo-montiano, non parlò più della tragedia fino al febbraio del 1811, quando annunciò di aver cominciato a verseggiare l’Ajace. Nei mesi centrali dell’anno, Foscolo lavorò alacremente alla versificazione che era conclusa nell’ottobre del 1811; la prima rappresentazione si tenne al teatro alla Scala il 9 dicembre. L’argomento era tratto dal ciclo troiano ed era stato già rievocato nei vv. 215-225 del carme Dei sepolcri: dopo la morte di Achille, Ulisse ed Ajace aspirano entrambi alle armi dell’eroe; Agamennone e gli altri capi achei diffidano di Ajace e propendono per assegnare le armi, ingiustamente, a Ulisse. Dopo una serie di colpi di scena e di sospetti tradimenti, Ajace si uccide; mentre agonizza alla presenza dell’infelice moglie Tecmessa, il fratello Teucro, a lui fedele, gli rivela che le armi erano state assegnate a Ulisse.

La prima rappresentazione avvenne in un clima di forti tensioni e aspettative, alla presenza di un pubblico numerosissimo, che accolse tiepidamente la tragedia, giudicata troppo lunga, seppure non priva di una certa poesia. Una vera e propria stroncatura apparve invece sulle pagine del “Poligrafo”, espressione del gruppo ostile a Foscolo, attraverso una serie di recensioni negative e sarcastiche di Urbano Lampredi, pubblicate tra il 15 dicembre e il 5 gennaio 1812. La tragedia fu proibita dopo la seconda rappresentazione con decreto datato 13 dicembre, a causa delle allusioni politiche alla situazione contemporanea che si credette di riscontrare nel testo. In realtà non esiste alcuna conferma delle reali intenzioni “politiche” del poeta, anche se è innegabile che la tragedia sia animata da un forte spirito libertario e di denuncia della tirannide, rappresentata da Agamennone (forse figura di Napoleone), al quale è affidata l’ultima battuta, che contiene un’allusione, di ispirazione alfieriana, all’infelicità del potente.

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