Quando, nel quarto libro del Cortegiano, propone una meticolosa discussione sui principi di riferimento dell’azione politica e di governo, Castiglione, anziché ragionare in maniera astratta, intende proiettare sul piano modellizzante le meditazioni sviluppate a partire dai casi concreti di cui è stato spettatore: Cesare Borgia e Guidubaldo di Montefeltro, Francesco e Federico Gonzaga, Francesco Maria Della Rovere e Lorenzo de’ Medici, Francesco I e Carlo V. La natura cinica, opportunistica e ambigua del potere gli si è mostrata, durante la sua vita, in tutta la sua cruda evidenza, in ripetute circostanze, e tuttavia egli non si piega ad acconsentire a una pratica tanto degradata quanto diffusa. Già nella lettera a Enrico VII egli pone in grande evidenza simile concetto: la moralità del principe ruota intorno alla sua capacità di rinunciare al codice feudale e guerresco per elevarsi al rango di una civiltà eticamente superiore. Egli non cessa di esecrare la riduzione della vita politica a selvaggia lotta per il potere: poiché ne consegue una degenerazione bestiale, che, in nome del privato tornaconto, mette gli uni contro gli altri ed elimina ogni possibilità di pace.
Dal De officiis di Cicerone Castiglione prende e rilancia le raccomandazioni alla moderazione e alla clemenza come contrassegno dell’uomo nobile e generoso, che dimostra uno spirito conciliativo, pronto a dimenticarsi delle offese. Il principe, a dispetto di ogni falsa credenza, non deve essere teso esclusivamente alla conservazione del potere, perché questo, inevitabilmente, lo conduce a una condotta subdola e sleale; l’uomo di governo, nell’ottica di Baldassarre, deve in primo luogo puntare alla compiuta realizzazione della propria umanità. Riemergono, nel Cortegiano e nelle altre pagine dedicate da Castiglione alla teoria politica, gli insegnamenti di Giovanni Pontano, il quale già aveva richiamato il principe a conservare sempre uno spirito conciliativo, né ostinato né irritabile: capace di usare riguardo nei confronti del nemico e di concedere grazia e pietà ai vinti, quale forma estrema di rivendicazione della propria superiorità.