Canzone composta a Recanati nel gennaio 1822, e pubblicata per la prima volta nell’edizione di Bologna 1824. Il testo rappresenta un inno all’immaginazione, che nell’antichità e nell’età infantile di ogni uomo, consentiva di rendere “viva” “ogni cosa”. Questo tema era già stato più volte affrontato da Leopardi, ad esempio nel Discorso intorno alla poesia romantica e in diverse pagine dello Zibaldone (riferimenti essenziali per il Canto), ad esempio:
Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata o formata di esseri uguali a noi, quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ec. ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato e così de’ fonti abitati dalle Naiadi ec. e stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani credendolo un uomo o donna come Ciparisso ec. e così de’ fiori ec. come appunto i fanciulli. (Zib., pp. 63-4)
Nella poesia si legge che il ritorno della primavera, pur provocando un risorgimento del cuore e il ricordo della gioia passata, non può purtroppo far risorgere le illusioni dell’antica mitologia e della giovinezza, perché le rimpiante “favole antiche” del mondo classico sono ormai distrutte dal “vero” (“poscia che vite / son le stanze d’Olimpo, vv. 81-2):
Perché i celesti danni
ristori il sole ... (= “Per il fatto che il sole ripara i danni provocati dal cielo invernale”)
forse alle stanche e nel dolor sepolte
umane menti riede (= “torna”)
la bella età, cui la sciagura e l’atra
face (= “fiaccola”) del ver consunse
innanzi tempo? ... (vv. 1-2, 10-4)