Le lettere costituiscono per il periodo della prigionia una testimonianza preziosa, con la loro alternanza di toni, con la quantità di informazioni sulle speranze e sui progetti di scrittura del Tasso. Le prime composte nell’Ospedale di Sant’Anna, poco distante dal castello ducale di Ferrara, inviate a Scipione Gonzaga, al duca Alfonso II e ad altri, sono pervase dalla disperazione del poeta, da un sentimento di ingiustizia subita e insieme dal riconoscimento delle azioni sconclusionate e azzardate degli ultimi mesi. Allo stesso tempo, e mentre si avviava la composizione dei primi dialoghi Tasso addensò nelle sue pagine riferimenti eruditi ed eleganza retorica, ingredienti utilizzati a rassicurare i corrispondenti sulla lucidità di un poeta rinchiuso con la pesante diagnosi di una malinconia passata in follia. Così si lamentava con G. G. Albani:
Nuova ed inaudita sorte d’infelicità è la mia, ch’io debba persuadere a Vostra Signoria reverendissima di non esser forsennato, e di non dover come tal esser custodito dal signor duca di Ferrara (T. Tasso, Le lettere, a cura di C. Guasti, 5 voll., Firenze, Le Monnier, 1852-55, vol. II, 119).
Dopo un paio d’anni i toni si placarono, le richieste di liberazione si fecero meno frequenti e soprattutto meno disperate: nel corso del 1581 si registrano nell’epistolario espressioni di reverenza e fedeltà al duca, lettere in qualche misura scottanti in materia di fede, o discussioni sull’etichetta cavalleresca. L’altra faccia, oscura, di questa stagione riposa nelle lettere in cui Tasso descriveva i «disturbi», «umani e diabolici», cui era sottoposto nella sua reclusione (T. Tasso, Le lettere, a cura di C. Guasti, 5 voll., Firenze, Le Monnier, 1852-55, vol. II, 161-162). Sono i passaggi più celebri dell’epistolario, quelli che hanno tradizionalmente accreditato la “follia” tassiana e che vanno invece visti come l’oscurarsi puntuale di una mente turbata che avrebbe negli anni successivi recuperato lucidità, mostrandosi capace di complesse costruzioni poetiche.