Tra le numerose versioni cinematografiche del Decameron particolare rilievo ha l’adattamento firmato da Pier Paolo Pasolini nel 1971. La pellicola ottenne l’Orso d’argento al Festival di Berlino. Nonostante il riconoscimento ufficiale e il buon successo di pubblico nelle sale, il film fu sottoposto a sequestro in più regioni d’Italia, in seguito a numerose denuncie per pornografia, tutte archiviate dal tribunale di Trento, che, rivendicando la propria competenza territoriale, ne ordinò ogni volta il dissequestro.
Pasolini porta sullo schermo nove novelle decameroniane (Andreuccio da Perugia [II, 5]; Masetto da Lamporecchio [III, 1]); Peronella [VII, 2]; Ciappelletto [I, 1]; Giotto e Forese [VI, 5]; Riccardo e Caterina [V, 4]; Lisabetta e Lorenzo [IV 5]; Donno Gianni [IX, 10]; Meuccio e Tingoccio [VII, 10]), scegliendo per esse un’ambientazione napoletana, che si ripercuote sulla lingua dei protagonisti, i quali si esprimono tutti in dialetto. All’invenzione boccacciana della cornice si sostituiscono due racconti guida, quello di Ciappelletto, interpretato da Sergio Citti, che si colloca nel primo tempo del film, e quello dell’allievo di Giotto, impersonato da Pasolini, al quale è destinato il secondo tempo e l’epilogo. La sceneggiatura originaria rispecchia il progetto ambizioso di un lungometraggio della durata di tre ore, articolato in tre tempi, che fu successivamente abbandonato. A questo “affresco di tutto il mondo”, come ebbe modo di definirlo il regista in una lettera al produttore Franco Rossellini[1], si sostituisce nel film del 1971 una selezione di novelle, scelte per affrontare i temi principali dello scontro tra le classi sociali e della liberazione sessuale.
Pasolini sceglie di raffigurare una realtà contadina ingenua e innocente, nella quale l’istinto domina i rapporti interpersonali, senza preconcetti bigotti o conservatori. L’interrelazione sociale riproduce però i giochi di forza che contrappongono la borghesia alle classi subalterne e si traduce in una condanna dello sfruttamento dei deboli.
[1]P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a c. di N. Naldini, Torino 1988, pp. 670-671.