Situata sulle rive dell’Adige, Verona, come scrive Dionisotti, “è nella storia letteraria una città dantesca non soltanto perché fu primo rifugio del poeta esule e conseguentemente parte importante dell’opera di lui, ma anche perché diventò patria dei discendenti, a cominciare dal primogenito Pietro fino all’estinzione della famiglia nel Cinquecento”[1]. Subito dopo l’esilio, prima ancora della rottura con gli altri fuoriusciti Bianchi, Dante fu infatti a Verona, nota per il suo sicuro filoghibellinismo, da Bartolomeo della Scala tra il 1303 e il 1304 forse per sollecitare aiuti nei preparativi militari contro i Neri. Assai più importante il secondo soggiorno veronese, prolungatosi dal 1312-’13 al 1318 circa, in cui l’esule fiorentino, ormai completamente dedito alla revisione delle prime due cantiche e alla stesura del Paradiso, fu ospite di Cangrande della Scala, divenuto signore di Verona già nel 1311 e poi vicario imperiale. La riconoscenza che Dante dovette provare per quest’ultimo è, del resto, testimoniata non solo dalle parole di elogio a lui rivolte nel XVII canto del Paradiso (vv. 76-93), ma anche dal fatto che il poeta gli dedicò l’ultima cantica della Commedia, probabilmente inviandogliela assieme ad un’epistola, la XIII, che ancora oggi costituisce una straordinaria e preziosa introduzione a tutto il poema. Anche quando, tra il 1318 ed il 1320, decise, per motivi che non sono noti, di abbandonare Verona per trasferirsi a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, Dante continuò ad essere legato a Cangrande. E, d’altra parte, già nel gennaio del 1320, pur essendosi stabilito a Ravenna, il poeta ritornò occasionalmente a Verona, per tenere, nel tempietto di S. Elena, al cospetto di tutto il clero veronese, una lezione De forma et situ aque et terre, meglio nota come Questio de aqua et terra.
[1] C. Dionisotti, Dante e Petrarca nella cultura veronese, in Petrarca, Verona e l’Europa. Atti del Convegno internazionale di studi, a cura di G. Billanovich e G. Frasso, Padova, Antenore, 1997, p. 1.