Strofa di sedici endecasillabi e settenari, fu composta fra il 1833 e il 1835 a Napoli, e pubblicata per la prima volta nell’edizione di Napoli 1835.
Il Canto è originato dalla delusione per la fine dell’amore per Fanny Targioni Tozzetti, ed è un’apostrofe che Leopardi rivolge direttamente al proprio cuore, invitandolo a rinunciare anche all’ultima delle illusioni, appunto quella dell’amore, la stessa illusione che nel Pensiero dominante all’inizio dei Canti del “Ciclo di Aspasia”, era ancora ritenuta in grado di rendere felice il poeta e di “nobilitarlo”:
... Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasi. Non al cosa nessuna
I moti tuoi, ... (vv. 3-7)
Il Canto (caratterizzato stilisticamente da frasi brevissime e dall’insistita presenza di enjambements, che insieme alla sapiente alternanza di endecasillabi e settenari e all’uso accorto della ripetizione rivelano tutta la maestria stilistica di Leopardi) raggiunge il proprio culmine in alcuni versi fra i più disperati composti dal poeta:
...Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
... Omai disprezza
te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso (= “nascosto”), a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto. (vv. 9-10, 13-6)
Innegabili sono le consonanze tra A se stesso e l’abbozzo di inno Ad Arimane (spirito del male dello zoroastrismo), composto nella prima metà del 1833 (vi si legge: “concedimi ch’io non passi il 7° lustro [= “trentacinque anni”]):
Re delle cose, autor del mondo, arcana
malvagità, sommo potere e somma
intelligenza, eterno
dator de’ mali e reggitor del moto.