Canzone “libera” composta a Recanati tra il 17 e il 20 settembre 1829 e pubblicata la prima volta nell’edizione di Firenze 1831, costituisce un “dittico” con la quasi contemporanea Il sabato del villaggio.
Il Canto è intessuto nella sua prima parte di immagini “idilliche” della vita recanatese, che non si presentano quali rimembranze del passato (come in A Silvia e nelle Ricordanze) ma quali descrittivi “quadretti” del borgo: gli “augelli” che, passata la tempesta, fanno festa, l’“artigiano”, la “femminetta”, l’“erbaiuol” e il “passeggier” sono personaggi notissimi della poesia leopardiana, ed esprimono il piacere del ritorno alle occupazioni di tutti i giorni dopo il passaggio della “tempesta”.
Tali immagini positive non possono però nascondere la tematica amara che Leopardi affronta nella seconda parte del Canto, cioè l’inconsistenza e la fragilità di quel piacere, causato solamente alla cessazione del dolore, e più in generale l’ostilità della Natura verso ogni vivente:
O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
che per mostro (= “prodigio”) e miracolo talvolta
nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice (= “ti è concesso”)
d’alcun dolor: beata
se te d’ogni dolor morte risana. (vv. 42-54)
Si noterà come la riflessione leopardiana sia espressa in questo Canto più che altrove attraverso alcuni versi “epigrammatici”, non a caso rimasti nella memoria comune, anche slegati dal contesto (“Passata è la tempesta: / odo augelli far festa”, “Piacer figlio d’affanno”, “Uscir di pena / è diletto fra noi”, “Umana / prole cara agli eterni! assai felice / se respirar ti lice / d’alcun dolor”; vv. 1-2, 32, 45-6, 50-3).