Una testimonianza controversa di poesia dialettale:
l’ “epistola napoletana”
Si è a lungo dibattuto sull’autenticità del documento noto come “epistola napoletana”. Si tratta di una delle prime testimonianza di letteratura dialettale riflessa, anticipatrice dell’espressionismo linguistico decameroniano.
La lettera, indirizzata a Franceschino dei Bardi, appartenente alla nota compagnia commerciale e residente a Gaeta, informa il destinatario della missiva che è divenuto padre di un figlio maschio, partorito a Napoli dalla sua amante Machinti.
La narrazione del battesimo del piccolo è svolta in un colorito dialetto napoletano, e numerosi sono i nomi (o piuttosto i giocosi pseudonimi) ricordati, nell’elencazione di quanti sopraggiungono per festeggiare il nuovo arrivato.
Non prende parte all’euforia generale “abbate Ja’ Boccaccio, como sai tu, e nin juorno, ni notte perzì, fa schitto ca scribere”[1]. Con un curioso sdoppiamento di persona, perché la lettera è firmata con lo pseudonimo Jannetta di Parisse (Giannetto di Parigi), Giovanni si presenta come un chierico intento agli studi, in meditato isolamento rispetto all’allegro contesto partenopeo.
Il lungo inserto in dialetto napoletano è introdotto da un preambolo in volgare, nel quale Boccaccio spiega che anche gli uomini più impegnati devono a volta potersi confortare con qualche “onesto diletto”, come seppero fare i saggi antichi, tra i quali Socrate. L’affermazione può essere accolta a mo’ di allusivo suggerimento per l’esegesi del brano dialettale a seguire, che verrebbe perciò a configurarsi come una facezia arguta, ma bonaria.
[1]Il testo completo della lettera e la sua traduzione in F. Sabatini, Lingue e letterature volgari in competizione, in Storia e civiltà della Campania. Il medioevo, a c. di G. Pugliese Caratelli, Napoli 1992, pp. 401-431.

