La canzone Al Metauro
Scritta nel luglio 1578, durante il soggiorno ad Urbino interno ai numerosi spostamenti di quell’anno, la canzone indirizzata al fiume Metauro (incipit: O del grand’Apennino) è uno dei capolavori della produzione lirica tassiana. Sprofondato da mesi in una condizione di amara incertezza, il Tasso congegnava una sorta di ritratto autobiografico ove le esperienze dolorose di infanzia e prima giovinezza erano alluse entro un registro alto e severo, nel quale così suonavano le proteste contro una Fortuna ostile:
Oimè dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena. (Rime, 573, 21-26)
Verosimile, anche per i frangenti difficili che il Tasso andava attraversando, che la canzone sia rimasta interrotta dopo le prime tre strofe, anche se gli ultimi versi, a seguito del ricordo della morte della madre e dell’amaro destino di Bernardo, sigillano in modo perfetto, e quasi profeticamente, questo bilancio in versi stilato alla vigilia della reclusione a Sant’Anna:
Padre, o buon padre, che dal Ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu il sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto (Rime, 573, 55-60).

