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Il rifiuto dell’amnistia e la condanna a morte del 1315

Nel 1315, unitesi sotto la guida di Uguccione della Faggiuola le ghibelline Pisa e Lucca, Firenze subì l’inquietudine di una nuova minaccia. Così, come già era accaduto in passato con la discesa di Arrigo VII, davanti al pericolo di uno scontro che si prospettava durissimo, il comune fiorentino decise di concentrare il maggior numero possibile di forze, emanando, per tutti i cittadini esiliati, una nuova amnistia. Il ritorno in patria era, però, subordinato al pagamento di una multa, oltre che ad un umiliante rito di offerta a S. Giovanni. Dante – che era stato incluso nella lista dei condonabili – rinunciò a questa possibilità, poiché, come si legge nell’epistola rivolta ad un “Amico fiorentino” (Ep., XII), rientrare in città a queste condizioni non solo avrebbe comportato da parte sua un’ammissione di colpa, ma anche un gesto incompatibile con la propria dignità.

Lo scontro con Pisa e Lucca non tardò ad arrivare e confermò i timori dei Fiorentini, i quali nella battaglia di Montecatini, riportarono una disfatta disastrosa. Per porre rimedio allo squilibrio economico causato dalla guerra, il Collegio dei priori emanò un altro provvedimento, con il quale offriva ai cittadini condannati a morte la possibilità di vedersi commutata la pena nel confino, purché pagassero una somma di danaro come garanzia. Anche in quest’occasione Dante si rifiutò di scendere a patti. Cosí, il 9 novembre del 1315, il vicario Raniero Zaccaria, confermando la condanna a morte e la confisca e distruzione di tutti i beni di Dante, dispose, per lui ed i suoi figli, la decapitazione, qualora questi fossero stati rintracciati nel dominio di Firenze. Tale provvedimento fu per il poeta un’ennesima delusione, ma non bastò in lui a distruggere definitivamente la speranza di un ritorno onorevole in patria, come dimostra l’inizio del XXV canto del Paradiso: “ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo prenderò ’l cappello”.

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