La battaglia della Lastra
Fallito il piano di guerra, organizzato contro Firenze dagli esuli fiorentini nella riunione (a cui partecipò anche Dante) che si tenne nel giugno del 1302 a San Godenzo al Mugello, e fallita anche l’azione diplomatica avviata, nella primavera del 1304, dal cardinale Niccolò da Prato, nuovo legato del neoletto papa Benedetto XI, in cui Dante, ostile ad una avventata soluzione armata, aveva riposto molte speranze, il 20 luglio di quello stesso anno i fuorusciti Bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i Neri.
Dante, assai cauto nei confronti dei troppo facili ottimismi della sua parte e convinto della necessità di attendere situazioni politiche più favorevoli e di creare più solidi sistemi di alleanze, si schierò, sia pure in posizione fortemente minoritaria, contro l’opzione militare, al punto che su di lui si addensarono i sospetti degli esuli più intransigenti e contrari a trattative diplomatiche.
L’impresa della Lastra, inficiata da una cattiva organizzazione, ebbe, come previsto dall’Alighieri, esiti catastrofici (quattrocento tra Bianchi, ghibellini e confederati di altre città caddero sul campo) e rappresentò per tutti i suoi fautori un evento traumatico. Tale insuccesso aprì una spaccatura profonda all’interno del gruppo dei Bianchi, dal quale Dante, che non ne aveva condiviso i metodi impiegati, dovette subito, prima ancora dello scontro militare, prendere le distanze, così come si evince da un passaggio del discorso profetico, che Cacciaguida rivolge al poeta nel XVII canto del Paradiso. Qui, riferendosi proprio all’episodio della Lastra, l’autore, per bocca del suo avo, definisce la propria fazione una “compagnia malvagia e scempia” ed esprime chiaramente il suo distacco da essa: “Di sua bestialitate il suo processo / farà la prova; sí ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso” (vv. 67-69).

