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Gli ultimi anni dell’esilio (1310-1321)

fotografia Tra il 1310 e il ’13 Dante fu assorbito dall’entusiasmo per l’incoronazione imperiale di Arrigo VII e per la sua discesa in Italia. Ospite nel Casentino di Guido da Battifolle dalla fine del 1310 almeno fino al 1312, l’esule manifesterà tutte le proprie aspettative per l’impresa imperiale non solo scrivendo alla moglie di Arrigo VII le tre epistole a nome di Gherardesca, moglie del suo ospite, ma soprattutto rivolgendo nel 1310 un’appassionata invocazione ai signori d’Italia perché accolgano e onorino l’imperatore (Epistola V), e indirizzando nel 1311 una vibrante invettiva (Epistola VI) contro gli “scelleratissimi fiorentini”, accaniti promotori della resistenza antiimperiale. E proprio questa evidente partigianeria per l’impresa di Arrigo sarà il motivo dell’esclusione del poeta dall’amnistia del 1311, concessa dal comune di Firenze ai fuoriusciti Guelfi. Nel marzo del 1312 Dante è quasi certamente, come testimonia Petrarca, a Pisa per rendere omaggio all’imperatore giunto in Toscana, anche se non prenderà parte, per “reverenza” verso la patria, all’assedio che questi pose a Firenze tra settembre e ottobre. Dopo la morte improvvisa dell’imperatore, abbandonata ogni speranza di rientro a Firenze, Dante nel 1313 si stabilisce a Verona presso Cangrande della Scala, dove rimarrà fino al 1318, avendo rifiutato nel maggio del 1315 di usufruire di una nuova amnistia promulgata dalla Signoria fiorentina, le cui condizioni gli erano parse infamanti. Un rifiuto, affidato all’Epistola XII, che gli costò la riconferma dell’esilio e della condanna a morte per lui e per i figli. Nel 1318 lascia per motivi non noti Verona e si trasferisce a Ravenna, ospite di Guido Novello. Qui, mentre attende alla conclusione del Paradiso, è sia pure non sistematicamente impegnato in attività di cancelleria e in ambascerie, tra cui quella a Venezia dell’agosto del 1321, di ritorno dalla quale, colpito dalla malaria, muore tra il 13 il 14 settembre.

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