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Adelchi: personaggi

L’Adelchi fu composto fra i 1820 e il 1822 e uscì, con  la dedica alla moglie Enrichetta, presso l’editore milanese Ferrario, insieme al discorso sui Longobardi. Sia le Notizie storiche preliminari, sia il discorso sui Longobardi testimoniano che il Manzoni era interessato, sotto l’influenza degli storici liberali francesi, a rappresentare il conflitto fra i barbari oppressori e il popolo latino oppresso. Questo interesse si rivela nel Coro del III atto, dove il poeta invita appunto i Latini (“un volgo disperso che nome non ha”) a non illudersi che i Franchi, cacciando i Longobardi, restituiscano loro la libertà e l’indipendenza, che invece vanno conquistate con la lotta. Nel coro è implicita quell’istanza risorgimentale che si esprime chiaramente nell’ode Marzo 1821  e lo stesso Adelchi, in una prima stesura del dramma, era una figura patriottica, che voleva unire Latini e Longobardi in una nazione sovrana. Nella tragedia torna la rappresentazione cupa del potere politico, già presente nel Carmagnola: la dura legge della “ragion di stato” che induce Carlo a ripudiare Ermengarda, che pure l’ama; la sete di dominio che acceca Desiderio; il vile tradimento di Svarto, che invidia i potenti. Ma il conflitto tragico che sta al centro dell’opera, e che va oltre i limiti storici entro cui esso è ambientato, è quello tra due anime pure e dolenti, ispirate dai valori evangelici e un mondo che, dopo la “caduta” del peccato originale, è abbandonato da Dio e in balìa di una legge feroce: quella che con accenti elegiaci viene enunciata da Adelchi morente (“loco a gentile, / ad innocente opra non v’è: non resta / che far torto, o patirlo”).  La tragicità della figura di Adelchi (una figura amletica, diversa dagli eroi tragici alfieriani e romantici) consiste nell’impossibilità di agire operando il bene. Egli è una vittima del male di questo mondo e la soluzione al suo conflitto interiore non potrà essere che oltre la morte, nella divina consolazione del mondo ultraterreno. Uguale destino ha riservato Dio ad Ermengarda, facendola soffrire, ma, con una “provvida sventura”, ponendola (lei discendente da oppressori) “in fra gli oppressi” e salvando la sua  innocenza dalle colpe dell’agire umano. Il senso della passione di Ermengarda viene liricamente espresso nel celebre Coro dell’atto IV.

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