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Il Cinque Maggio

fotografia La morte di Napoleone dovette indubbiamente colpire profondamente tutta l’Europa, per il mito che si era venuto costruendo intorno alla sua figura di generale vittorioso, di abile politico e statista, di interprete di un eccezionale momento della storia: insomma di “uomo fatale”, proprio come lo definiva Manzoni nell’ode Il Cinque Maggio, composta di getto appena saputa la notizia. Scritta qualche mese dopo le ardenti strofe dell’altra ode civile, Marzo 1821, l’ode si accosta maggiormente, tuttavia, al coro di Ermengarda, dell’Adelchi, composto pochi mesi dopo. Uguale al coro nella struttura metrica, l’ode civile sviluppa anch’essa quel tema così caro al Manzoni della “passione-resurrezione”, rappresentando nel destino di Napoleone un itinerario dalla sofferenza mondana alla consolazione oltremondana simile a quello di Ermengarda. L’esordio dell’ode fissa lo stupore dei contemporanei alla notizia della scomparsa di Napoleone (vv. 1-12). Poi il poeta distingue il proprio canto dalle tante celebrazioni encomiastiche o critiche offensive che hanno seguito le alterne vicende della vita terrena del Bonaparte. E’ infatti il momento della morte del grande uomo (il “sùbito sparir di tanto raggio”) che lo commuove e gli fa sciogliere all’urna “un cantico / che forse non morrà” (vv. 13-24). Seguono le immagini, rapide ed incisive, delle gesta napoleoniche, la cui grandiosità, nella buona o nella cattiva sorte, sono un segno della potenza del Creatore: “tutto ei provò: la gloria / maggior dopo il periglio, / la fuga e la vittoria, / la reggia e il tristo esiglio: / due volte nella polvere, / due volte sull’altar” (vv. 25-54). Nelle strofe conclusive Napoleone è rappresentato nella fase successiva alla sconfitta definitiva, nell’esilio di S. Elena. Tutte le grandi imprese e tutta la sua potenza politica è ormai solo un angoscioso ricordo. La sua grandezza, come tutte le cose del mondo, è finita. Ma proprio nel momento di maggior disperazione scende a consolarlo la misericordia divina, che lo accoglie, ormai misero mortale com’egli è tornato ad essere, in un aldilà che il poeta evoca con parole di alta liricità, simili a quelle che accompagnano la morte di Ermengarda.

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