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Poesie sparse

C’è una produzione poetica “minore” che, in modo sparso e discontinuo, accompagna tutta la vita dello scrittore, e che è degna d’attenzione sia per gli indizi autobiografici sia per i significati letterari che essa contiene. Dopo i due componimenti originati dal declino e fine del regime napoleonico (Aprile 1814 e Il proclama di Rimini), di particolare interesse sono due testi satirici del 1817, che indicano la partecipazione del Manzoni alle polemiche romantiche. Uno è L’ira di Apollo, in cui si rappresenta il Dio classico della poesia che infuriato giunge a Milano per infilzare il romantico Berchet. L’altro è una parodia, scritta insieme ad Ermes Visconti, del canto XVI della Gerusalemme Liberata del Tasso, nella quale i due amici, rovesciando in farsa gli amori di Rinaldo e Armida, mettevano in burla certi eccessi languidi e patetici del melodramma. Abbiamo poi alcuni brevi componimenti di natura occasionale, scriti spesso in arguti biglietti indirizzati agli amici (al Porta, al Grossi, al Cattaneo, al pittore Francesco Hayez, al Rosmini). Fra i componimenti seri va ricordato soprattutto il Natale del 1833, scritto nella cupa angoscia provocata dalla morte di Enrichetta. Quel testo, incompiuto, è costruito sul genere e sulla metrica degli Inni sacri, come pure altri componimenti successivi, quali Ognissanti (1847) e le Strofe per una prima comunione (1832-1855). Manzoni, ottantatreenne, sperimentò anche la composizione in latino, coi distici elegiaci di Volucres (“Uccelli”, del 1868), una poesia ispirata dalle passeggiate giornaliere, in compagnia di amici o parenti, ai giardini pubblici: in essa, con sottile allusione alle proprie condizioni, svolge il tema del confronto fra gli uccelli chiusi in gabbia e quelli liberi di volare sullo stagno. L’ultimo testo poetico, in due soli versi, è ancora un amaro commento al proprio decadimento fisico, ma è pure un salace guizzo di quell’auto-ironia che aveva caratterizzato la sua opera di narratore e che ora sembra ridere del problema (capitale per Manzoni) della verità: “Gambe, occhio, orecchio, naso, e ahimé pensiero / Non n’ho più uno che mi dica il vero”.

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