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Percorso testuale > I capolavori > Aminta
Aminta
Nelle tante pagine di ordine teorico che il Tasso scrisse lungo l’intera sua parabola letteraria neppure un passaggio è dedicato specificamente all'Aminta. L’opera venne composta nei primi mesi del 1573, fu rappresentata a Belriguardo di fronte alla corte, e subito accolta come un capolavoro. Mentre, sotto il profilo letterario, rinnovava e portava al culmine la tradizione delle pastorali ferraresi (di recente sostenuta da Luigi d’Este), e recuperava in parte la lezione della Canace di Speroni, Aminta si innestava nelle dinamiche della corte ferrarese, della quale offriva una sorta di raffigurazione appena velata, sotto il segno della serenità e dell’equilibrio (per un’interpretazione dei rapporti tra l’opera e la corte si veda E. Graziosi, Aminta 1573-1580. Amore e matrimonio in casa d’Esta, Pisa, Pacini 2001). La favola, distribuita in cinque atti ed aperta da un prologo di Amore, narra della passione inizialmente infelice di Aminta per Silvia, fanciulla consapevolmente ritrosa al legame amoroso. Non i savi consigli impartiti ai due giovani da Dafne e Tirsi (sotto il cui personaggio si cela il Tasso stesso), né la liberazione da parte di Aminta di Silvia dalle minacce di un satiro riescono ad attenuare la rigida freddezza della ragazza, durezza che svanisce solo di fronte alla notizia della morte di Aminta, apparentemente suicidatosi. L’unione dei due giovani, obiettivo infine raggiunto, rimane confinata fuori scena, ma soprattutto il fine lieto non riassorbe del tutto quel vago sentore di una storia tragica che a lungo grava sulla vicenda: su questa «ambigua armonia» si stacca come simbolo il coro del primo atto, inneggiante all’età dell’oro come regno di Amore non ancora irretito dalle regole imposte agli uomini dall’Onore, e regolato dunque da una «legge aurea e felice / che natura scolpì: / S’ei piace ei lice».
 
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