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La crisi delle corti italiane
Il trentennio abbondante vissuto dal Tasso nelle corti italiane, dalla Urbino della fine degli anni ’50 alla corte pontificia dei primi anni ’90, è una stagione di forza e propulsività declinante, non soltanto in termini di rilievo politico, già pregiudicato dai primi decenni del secolo, ma anche di tenuta ideale. Se gli studi nella corte urbinate impressero nel Tassino la memoria della grande stagione di Castiglione, la lunga permanenza nella Ferrara estense significò sia la cornice dorata dei primi anni, sia la lunga polemica che contrappose gli Este ai Medici per la “precedenza”, una questione di grado principesco solo apparentemente formale (il Tasso dedicò uno dei suoi dialoghi all’argomento, prendendo parte per i duchi ferraresi); sia, soprattutto, la questione della successione al duca Alfonso II, rovello che orientò tutta la politica estense degli ultimi anni e che rimase irrisolto, conducendo alla devoluzione del 1597. Il Tasso ebbe modo di vedere i primi anni del ducato dell’intraprendente Carlo Emanuele di Savoia, e soprattutto di godere della munificenza di Vincenzo Gonzaga, prima principe e poi generoso duca di Mantova, ma orientò su Roma e sulla mutevole corte pontificia i suoi ultimi anni, in linea con la tendenza solenne e religiosa delle ultime prove, fino al Mondo creato.
 
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