Il cosiddetto traviamento
In Purg., XXX e XXXI, Dante, giunto al Paradiso terrestre, ritrova Beatrice, che lo rimprovera duramente di essersi allontanato da lei dopo la sua morte, rivolgendo le proprie attenzioni ad altri (“questi si tolse a me, e diessi altrui”: Purg., XXX 126), incamminandosi attraverso una “[…] via non vera / imagini di ben seguendo false” (Purg., XXX 130-31), interessato dunque a “le cose fallaci” o ad “altra novità” (Purg., XXXI 56 e 60). All’episodio riferito da Beatrice, per il quale i dantisti hanno inventato la formula di comodo del “traviamento”, si è però sempre attribuito un fondamento autobiografico, tentando, non senza divergenze, di definirne meglio modalità e cause. Barbi, ad esempio, pensò a una crisi morale, rappresentata allegoricamente dallo smarrimento del pellegrino nella selva oscura del peccato. Altri hanno invece insistito sull’incostanza dell’innamorato, che avrebbe rivolto le proprie attenzioni ad altre donne, via via identificate con la donna gentile della Vita nuova o con altre protagoniste delle Rime; altri ancora vi hanno riconosciuto un’infedeltà verso la poesia a favore degli studi filosofici e, in particolare, delle tendenze averroistiche; Contini ne ha fornito un’interpretazione metaletteraria, con riferimento dunque a un traviamento stilistico. Né è mancato chi ha cercato di concordare tutte le diverse ipotesi, osservando opportunamente come in Dante il piano biografico si definisca a partire dalle scelte intellettuali e letterarie. Qualunque sia stata la fenomenologia del “traviamento” è infatti indiscutibile che la morte di Beatrice abbia rappresentato un momento di sensibile frattura nell’esperienza dantesca, che lo stesso poeta confesserà esplicitamente nel Purgatorio, definendolo in sostanza come “un prevalere del tempo sull’eterno”, un progressivo allontanamento da quel “traguardo metafisico”[1], cui costantemente Beatrice, con la sola presenza, lo richiamava.
[1] F. Mazzoni, Il canto XXXI del Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 57 e 64.

