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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

fotografia Canzone “libera” (sei strofe di diversa lunghezza di endecasillabi e settenari variamente alternati e rimati) composta a Recanati tra il 22 ottobre 1829 e il 9 aprile 1830 (ultima cronologicamente tra i Canti “pisano-recanatesi”), fu pubblicata la prima volta nell’edizione di Firenze 1831 (col titolo Canto notturno d’un pastore vagante dell’Asia; col titolo definitivo nella raccolta dei Canti pubblicata a Napoli nel 1835).

All’origine del Canto vi è una recensione, sul “Journal des Savants” del settembre 1826, al volume del barone Meyendorff, Voyage d’Orembourg à Boukhara, fait en 1820 (1826), recensione parzialmente trascritta nello Zibaldone del 3 ottobre 1828, dove tra l’altro si legge: “Plusieurs d’entre eux (d’entre les Kirkis), dice M. de Meyendorff, ib., passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins” (= “Parecchi fra loro -tra i Kirghisi- ... passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna, improvvisando parole tristi su melodie che non lo sono meno”, pp. 399-400).

Attraverso la finzione del canto del pastore kirghiso (in un linguaggio semplice, ma con forti venature petrarchesche) Leopardi, abbandonato il parziale autobiografismo e l’ambientazione “cittadina” dei Canti pisano-recanatesi (i tre precedenti e i due successivi), riflette sul significato della vita umana, sulla morte, sul dolore, ponendo in tutto il corso del componimento una serie di interrogativi universali destinati a rimanere senza risposta (“Che fai tu, luna, in ciel?”, “Se la vita è sventura, / perché da noi si dura?”, “che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?”, vv. 1, 55-6, 88-9).

L’unica, amara certezza, è che la vita è infelice; non solo la vita individuale del pastore:

Questo io conosco e sento,

che degli eterni giri,

che dell’esser mio frale (= “fragile”),

qualche bene o contento

avrà fors’altri; a me la vita è male. (vv. 100-4);

ma la vita di tutti gli uomini, e perfino dell’intero regno animale:

O forse erra dal vero,

mirando all’altrui sorte, il mio pensiero;

forse in qual forma, in quale

stato che sia, dentro covile o cuna (= “culla”),

è funesto a chi nasce il dì natale. (vv. 139-43)

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