COLA DI RIENZO

Di umili origini ma autodidatta, Cola di Rienzo aveva fatto parte di una ambasceria popolare venuta ad Avignone a recare il saluto della città di Roma al nuovo papa Clemente VI. Fermatosi ad Avignone per quasi due anni, tra 1342 e 1344, aveva stretto un curioso sodalizio intellettuale con Petrarca basato sul comune culto della romanità: secondo la testimonianza di un contemporaneo, infatti, Cola "moito usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare" (1) .
Il programma politico di Cola, basato su una miscela di mistica imperialista e culto della personalità e comunque pericolosamente astratto e libresco, trovò realizzazione in un colpo di stato messo in atto nel maggio 1347: Cola fu acclamato tribuno con poteri dittatoriali. La sua immediata e decisa rivendicazione delle prerogative sovrane di Roma contro i poteri contemporanei colpì profondamente Petrarca, che vi vide la rinascita della grandezza antica tante volte vagheggiata, incoraggiò Cola da lontano e lo tenne informato delle ripercussioni sempre più preoccupanti che essa aveva nella curia papale. Infatti l'azione di Cola, dapprima prudentemente incoraggiata dallo stesso Clemente VI, che sperava di poter trarre vantaggio dal suo carattere antinobiliare, andò radicalizzandosi in un conflitto aperto con lo stesso papa e con l'imperatore, minacciati nelle loro autorità. In urto aperto con il patriziato locale, Cola imprigionò alcuni dei suoi massimi esponenti (fra cui Stefano Colonna il Vecchio) ma li rilasciò poco dopo, provocando il commento sfavorevole di Petrarca; più tardi ne sconfisse un contingente armato che tentava di penetrare in città (combattimento nel quale rimasero uccisi Stefano Colonna il Giovane e suo figlio Giovanni), ma, soffocato dai troppi nemici e angustiato dal crescente malcontento popolare, il 15 dicembre preferì deporre la carica di tribuno e lasciare Roma. Petrarca, sceso in Italia a fine novembre quale ambasciatore del papa per Mastino della Scala ma forse con la segreta intenzione di raggiungere Cola a Roma, si trattenne qualche tempo a Genova e poi proseguì per Parma.
Dopo aver vagato a lungo per l'Italia meridionale, nel 1350 Cola si presentò alla corte imperiale di Carlo IV, che lo fece arrestare e nel 1352 lo spedì ad Avignone: qui lo rivide Petrarca, che diede un giudizio sostanzialmente negativo della sua passata impresa: "Egli è senza dubbio degno di ogni supplizio, perché quello che volle non lo volle con tutte le forze, come avrebbe dovuto e come le circostanze e la necessità richiedevano" (1) (Familiares XIII 6). Rimandato a Roma nel 1354 con il titolo di senatore, Cola vi fu ucciso poco dopo durante una sommossa. Nel giro di pochi mesi Cola fece toccare a Petrarca i vertici dell'entusiasmo e della delusione; ma nella sua opera egli omise del tutto il ricordo del primo, lasciando che trasparisse solo la seconda. Infatti, delle sette lettere a lui indirizzate che rimangono (altre sono andate perdute), l'unica che venne inserita nell'epistolario ufficiale è proprio l'ultima, scritta a Genova nel novembre 1347, che rimproverava Cola per aver tradito la sua missione (Familiares VII 7); altre due confluirono nel Sine nomine liber, mentre quattro (fra cui la lunga e impegnata hortatoria rivolta a Cola e al popolo romano agli inizi dell'avventura) ebbero solo una circolazione estravagante. Parimenti occultata dall'involucro allegorico è l'allusione favorevole a Cola nell'egloga V del Bucolicum carmen. I fatti del 1347 offrirono a Petrarca l'occasione per rompere con i Colonna, ma in seguito egli evitò di compromettersi così apertamente in favore di una fazione politica.

(1) Anonimo romano, Cronica. A cura di Giuseppe Porta, Milano, Adelphi, 1981, cap. XVIII.
(2) "Est quidem, fateor, omni supplicio dignus quia quod voluit non adeo perseveranter voluit ut debuit et ut rerum status necessitasque poscebant".

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