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Il confronto con Pietro Bembo

fotografia Pietro Bembo. umanista e letterato già famoso e illustre fin dai primissimi del Cinquecento, si trasferisce definitivamente da Venezia a Urbino nella seconda metà del 1506. E qui, durante i mesi inaugurali del suo soggiorno, non esita a esibire le proprie qualità e risorse di poeta in volgare. Per il carnevale del 1507, insieme all’amico Ottaviano Fregoso, scrive le Stanze, un componimento poetico destinato alla recitazione, per svago e intrattenimento della corte; poi, entro la fine di quel medesimo anno, compone la canzone funebre Alma cortese, in morte del fratello Carlo, con un congedo conclusivo di indirizzo e dedica alla duchessa Elisabetta Gonzaga.

Il Tirsi di Baldassarre Castiglione e Cesare Gonzaga prende forma come replica, sviluppo e corollario di questi due testi, e specialmente del primo di essi. Nelle Stanze, infatti, si finge che due personaggi, lo stesso Bembo e l’amico Fregoso mascherati, vengano inviati come ambasciatori dalla dea Venere alle due nobildonne che spiccano nella corte di Urbino, la duchessa Elisabetta e madonna Emilia Pio. Finzione e realtà, nelle Stanze come poi nel Tirsi, si mescolano in maniera tale che gli spettatori possano riconoscere se stessi e il proprio mondo dietro la patina letteraria della rappresentazione. Il travestimento, in entrambi i testi, obbedisce ad almeno tre motivazioni principali: il divertimento; l’esibizione virtuosistica, da parte degli autori, di colte reminiscenze e dotte allusioni ad autori greci, latini e italiani; l’esaltazione della corte urbinate.

Il Tirsi attiva espressamente nei confronti delle Stanze una gara, una emulazione amichevole: i due cugini, Castiglione e Cesare Gonzaga, intendono rivaleggiare gioiosamente, per dare voce a uno spirito di solidarietà letteraria, con Bembo e Fregoso, e perciò scrivono un testo, il Tirsi, che anche nelle dimensioni (454 versi) ricalca le orme delle Stanze (400 versi). L’una e l’altra opera si attengono, scrupolosamente, all’imitazione petrarchesca, per ottenere una sobrietà e scioltezza di parola, pur nell’ambito della esuberanza encomiastica, quali nessuno degli altri scrittori più in voga (Lorenzo, Poliziano, Sannazaro) aveva ancora raggiunto.

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