La Commedia: l’allegoria
Nell’Epistola XIII Dante, ricondotta la polisemia della Commedia alla duplicità di senso letterale e di senso allegorico, espone limpidamente l’allegoria fondamentale del poema, chiarendo che soggetto della Commedia è, sul piano letterale, la condizione delle anime dopo la morte, e, su quello allegorico, il libero agire dell’uomo che, peccando o agendo virtuosamente, consegue il castigo o il premio divino. Al di là di tale elemento fondamentale e di alcuni episodi, di cui esplicitamente il poeta invita il lettore a cogliere i risvolti allegorici, i valori estetici, morali e intellettuali del poema sono però già tutti interni al significato letterale, sì che deviante appare la maniacale ricerca di sovrasensi in ogni particolare. Quanto allo statuto allegorico, l’opzione per l’allegoria dei poeti (in cui il senso letterale è una “bella menzogna” sotto cui si nasconde la verità) o piuttosto per quella dei teologi (in cui anche la lettera è reale, storica) resta irrisolta, lasciata volutamente ambigua, con segnali contraddittori che ora paiono avvalorare l’interpretazione del poema come una fictio poetica, sia pure rappresentativa di una verità autentica, ora come una visio mistica. E non a caso sull’ambiguo statuto del poema, normalmente letterario o piuttosto profeticamente ispirato, si è divisa la critica dantesca sin dai primi commentatori. Del resto se è indubitabile l’assunzione di convenzioni e codici propri della scrittura poetica, è però altrettanto evidente che nella realistica rappresentazione dei personaggi (su cui avrà agito l’interpretazione figurale valorizzata da Auerbach) e nell’insistito tono di esperienza vissuta, che il viaggio oltremondano ha assunto fin dalla partenza, si matura il macroscopico scarto della Commedia con le astratte personificazioni della letteratura didascalico-allegorica medievale. Il lettore è in qualche modo obbligato a prendere atto che, per dirla con Singleton, “la fictio della Divina Commedia è che essa non sia una fictio”[1].
[1] Ch. S. Singleton, La sostanza delle cose vedute, in Id., La poesia della ‘Divina Commedia’, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 88.

