Seneca
Al pari di Cicerone, Seneca, definito in Inf., IV 141 “Seneca morale”, fu per Dante essenzialmente un grande filosofo, come testimonia appunto la sua collocazione tra la “filosofica famiglia” che nel Limbo si stringe intorno ad Aristotele. E il riconoscimento della grandezza filosofica di Seneca è confermato da alcuni passaggi del Convivio e dal giudizio di “inclitissimo philosophorum”, che gli è attribuito in Ep., III 8. Ma la conoscenza che Dante ha avuto di Seneca non si limita alle opere morali, in particolare al De beneficiis e alle Epistole a Lucilio, citati nel Convivio, ma si estende almeno alle Naturales Questiones, che Dante poté forse leggere direttamente, come mostrano non tanto la citazione di Conv., II 13 22, ma soprattutto gli echi rinvenuti da Contini nelle petrose. Il nesso Seneca-Dante riguarda però anche la Commedia con riscontri ridotti, ma significativi, come quello relativo alla figura di Ulisse, di cui non solo Seneca ricorda, in Ep. ad Lucilium, 88 6, un viaggio “extra notum nobis orbem”, ma su cui avrà forse agito, come alcuni studiosi persuasivamente hanno mostrato, anche il ritratto che Seneca ha tracciato nelle sue opere di Alessandro Magno come di un eroe folle che vuole oltrepassare i confini di un mondo al quale nulla, né patria, né moglie, né padre, lo lega.
Più complessa la questione della diretta conoscenza dantesca delle tragedie di Seneca, di cui sono stati segnalati numerosi, benché non incontrovertibili calchi verbali in parecchi versi della Commedia. La questione è anche in relazione non solo all’opinione diffusa nel Medioevo, ma probabilmente estranea a Dante, dell’esistenza di due distinti Seneca, uno filosofo e l’altro poeta, ma anche soprattutto al riconoscimento dell’integrale paternità dantesca dell’Epistola XIII, in cui si citano esplicitamente le tragedie di Seneca, sicuramente note per altro a Giovanni del Virgilio e all’ambiente del preumanesimo veneto, con il quale Dante entrò forse in contatto durante il suo soggiorno a Verona.

