Il passero solitario
Il Canto compare per la prima volta nell’edizione di Napoli 1835, all’undicesimo posto, ad aprire la serie degli Idilli (cui esplicitamente rinvia), nonostante sia stato composto certamente molto più tardi (si tratta della prima canzone “libera” che si incontra nei Canti), sebbene forse sulla base di un abbozzo giovanile. La discussione critica sulla cronologia è stata serratissima, e non si è ancora conclusa; fra le proposte più argomentate, quella di una composizione molto tarda (fra il 1832 e il ’35) avanzata da Domenico De Robertis, e quella di una composizione circoscritta sostanzialmente al periodo 1828-30 avanzata da Francesco De Rosa (che si basa in particolare su indizi linguistici e metrici).
Il tema di fondo del Canto, di ambientazione recanatese, è costituito dalla rimembranza malinconica della giovinezza, unita al rimorso per non averla goduta appieno. Centrale è il paragone tra l’abito della solitudine del passero:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore. (vv. 12-6)
e l’altrettanto solitario costume del poeta:
Oimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te german (= “fratello”) di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano; (vv. 17-23)
L'amara riflessione finale del Canto si basa sulla consapevolezza leopardiana del fatto che il passero, giunto alla fine della vita, non si dorrà delle proprie abitudini, perché queste gli sono state imposte dalla natura; egli, invece, dovrà soffrire le conseguenze delle proprie scelte:
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro (= “ottengo”),
...
che parrà di tal voglia?
che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro. (vv. 50-9)

