La sera del dì di festa
Idillio in endecasillabi sciolti composto probabilmente nel 1820 a Recanati, pubblicato la prima volta nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano del dicembre 1825 e poi nella raccolta dei Versi (Bologna 1826) (col titolo La sera del giorno festivo; il titolo definitivo si avrà solo nell’edizione di Napoli 1835).
Decisivo punto di riferimento per il Canto è un passo dello Zibaldone del 1819 (pp. 50-1), nel quale compaiono i riferimenti al “canto” quale stimolo memoriale, e al tema dell’ubi sunt, cioè alla riflessione sulla caducità di ogni esperienza umana, anche la più gloriosa (un tema che Leopardi riprenderà anche nella sua ultima stagione poetica, nel Canto La ginestra, o fiore del deserto:
Dolor nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto romore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco.
Nella lirica, che si apre con uno splendido “notturno”:
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. ... (vv. 1-4),
appare particolarmente significativo il tema del sonno della fanciulla contrapposto alla veglia amara del poeta:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; ...
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno. A te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. (vv. 7-8, 11-6)

