La ginestra, o il fiore del deserto
Canzone “libera” di sette strofe di varia misura (per un totale di trecentodiciassette tra endecasillabi e settenari), composta a Torre del Greco nella primavera 1836 e pubblicata la prima volta nell’edizione postuma dei Canti curata nel 1845 da Antonio Ranieri.
Vero “testamento spirituale” e capolavoro di Leopardi, il Canto, riutilizzando con un linguaggio aspro il tema settecentesco delle “rovine”, che testimoniano la distruttività della natura (in questo caso, le rovine di Pompei ed Ercolano, rase al suolo dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.), sferra un violento attacco (in parte già avanzato in Amore e Morte, nella Palinodia, nei Paralipomeni e nei Nuovi credenti) alle dottrine “salvifiche” del proprio “secol superbo e sciocco” (v. 53): lo spiritualismo cattolico e il progressismo liberal-moderato (in particolare vv. 307-17), entrambe “ottimisticamente” negatrici della costituzionale infelicità umana, del nostro “basso stato e frale (= “fragile”)” (v. 117).
Il pessimismo “materialistico” di Leopardi, che qui si esprime compiutamente, non gli impedisce tuttavia di proporre, alla fine del suo percorso poetico, quale esempio di condotta proprio l’umile ginestra, capace di accettare con dignità la propria fragilità:
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali. (vv. 314-7);
e non gli impedisce addirittura di auspicare un patto di solidarietà fra gli uomini, una “social catena” rivolta al reciproco sostegno nella lotta “contro l’empia natura” (vv. 148-9):
... quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. ... (vv. 123-35)

