PESTE NERA

Alla fine del 1347 arrivò in Europa, provenuta dall'oriente, un'epidemia di peste bubbonica. Abbattendosi su un tessuto sociale già provato dalle carestie e dalla stagnazione demografica, essa ebbe una violenza, una diffusione spaziale e una durata temporale mai viste prima: si stima che circa un terzo della popolazione del continente ne sia stato falcidiato. L'anno più terribile fu il 1348, ma nuovi focolai si accesero anche in anni successivi continuando a seminare vittime (il figlio di Petrarca, Giovanni, ne morì nel 1361).
Per la vita di Petrarca il 1348 segnò uno spartiacque che egli volle mettere in rilievo in apertura del suo epistolario: "Il tempo, come suol dirsi, ci è scivolato tra le dita; le nostre antiche speranze sono state sepolte insieme con gli amici. È il 1348 che ci ha resi soli e poveri, e ci ha tolto cose che non si possono recuperare né dal mare Indico né dal Caspio né dal Carpatico; le ultime perdite sono irreparabili; ciò che la morte infligge è una ferita insanabile" (1) (Familiares I 1); al medesimo destinatario, Socrate, rivolse un desolato lamento "su quella peste senza esempio, che avvenne nella loro età" (2) (Familiares VIII 7), mentre un tono più cristianamente rassegnato si avverte nella descrizione del flagello data nell'egloga IX del Bucolicum carmen. Fra 1348 e 1349, solo a causa della peste (e a tacere di altre morti per cause naturali, come quella di Sennuccio del Bene), Petrarca dovette registrare la scomparsa di numerose persone che avevano avuto una parte più o meno importante nella sua vita: anzitutto Laura e il cardinale Giovanni Colonna; poi Franceschino degli Albizzi, Bruno Casini, Luchino Visconti, Paganino da Bizzozzero. Il clima universalmente luttuoso che lo circondava, insieme alle ansie di rinnovamento prodotte dal giubileo del 1350, indussero Petrarca a voltare decisamente pagina: negli anni Cinquanta la sua produzione letteraria assunse sempre più un carattere di riflessione interiore, di impegno morale, e andò perdendo certi toni troppo esteriormente celebrativi.

(1) "Tempora, ut aiunt, inter digitos effluxerunt; spes nostre veteres cum amicis sepulte sunt. Milesimus trecentesimus quadragesimus octavus annus est, qui nos solos atque inopes fecit; neque enim ea nobis abstulit, que Indo aut Caspio Carpathio ve mari restaurari queant: irreparabiles sunt ultime iacture; et quodcunque mors intulit, immedicabile vulnus est".
(2) "de peste illa sine exemplo, que in eorum incidit etatem".

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