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Percorso tematico   Home Page > Percorso tematico > Le virtù del perfetto cortigiano > Nobiltà, grazia e sprezzatura

Nobiltà, grazia e sprezzatura

fotografia Nel capitolo 12 del primo libro del Cortegiano, il personaggio di Federico Fregoso, suscitando l’approvazione convinta della duchessa Elisabetta, propone che le conversazioni della brigata raccolta presso la corte di Urbino abbiano per tema la definizione della figura dell’uomo di corte. La riflessione, per incarico di Emilia Pio, viene inizialmente condotta da Ludovico di Canossa, il quale subito segnala che il primo attributo richiesto al perfetto gentiluomo è la nobiltà di origine: “perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa vedere le opere buone e le male, e accende e sprona alla virtù, così col timore d’infamia, come ancora con la speranza di lode” (B. Castiglione, Il Cortigiano, a cura di A. Quondam, Milano 2002, I, 31).

Chi è nato nobile è più esposto al giudizio altrui e, nel timore di risultare non all’altezza dei propri antenati, avverte un incitamento supplementare alla eccellenza. Quindi si segnala che il gentiluomo deve essere leale e non codardo e, nello stesso tempo, refrattario alla celebrazione di sé: si esige da lui il ripudio della vanagloria tipica dei costumi feudali. Si arriva così, nel tentativo di precisare la differenza tra l’uomo di corte rinascimentale e gli uomini d’arme del mondo cavalleresco medioevale, a introdurre i concetti di grazia e sprezzatura, intorno a cui ruota l’identità, etica e psicologica, del moderno gentiluomo.

L’uomo di corte, in ogni circostanza della vita di relazione, deve possedere quella grazia che gli consente di risultare sempre gradito, amabile, bene accetto. Al proposito, in un passo famoso, Ludovico di Canossa propone siffatta “regola universalissima”: “fuggire quanto si può, e come un asprissimo e pericoloso scoglio, l’affettazione, e per dire forse una nuova parola, usare in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi” (ed. cit., I, 48). La sprezzatura è il segno distintivo del moderno gentiluomo, che Castiglione codifica rielaborando temi presenti nell’Etica Nicomachea di Aristotele: una norma di autocontrollo interiorizzata, che si traduce in disinvoltura, nonchalance, understatement.

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