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Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica

fotografia Canzone composta a Recanati nel gennaio 1820, in “10 o 12 giorni”, e pubblicata nell’edizione di Bologna 1820 con dedica a Leonardo Trissino (poi modificata in quella di Bologna 1824).

Nonostante quando nel 1822 poté leggere il testo del De re publica, scoperto da Angelo Mai, Prefetto della Biblioteca Vaticana, in un codice della biblioteca, Leopardi ne restasse deluso (pubblicò comunque nelle romane “Effemeridi letterarie” del ’22 l’articolo filologico Notae in Ciceronis de Re Publica), la notizia del suo ritrovamento lo entusiasmò, ispirandogli la Canzone. Qui Leopardi espresse i versi più alti della propria poesia patriottica, in particolare nella “galleria” dei grandi Italiani (Dante, Colombo, Ariosto, Tasso, Alfieri) che ebbero la fortuna di non nascere in un “secol morto, al quale incombe / tanta nebbia di tedio” (vv. 4-5).

Il valore politico e civile dei suoi versi è sottolineato da Leopardi in una lettera a Pietro Brighenti del 20 aprile 1820, in cui a proposito della Canzone scrive:

Mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar di quello che più gl’importa, e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una Canzone piena d’orribile fanatismo.

Al tema civile si aggiungono poi altre tematiche care al Leopardi: soprattutto, la consapevolezza dell’inconciliabilità fra conoscenza e felicità, espressa nelle splendide strofe su Colombo (vv. 76-105):

Ma tua vita era allor con gli astri e il mare,

ligure ardita prole,

quand’oltre alle colonne, ed oltre ai liti

cui strider l’onde all’attuffar del sole

parve udir su la sera, agl’infiniti

flutti commesso (= “affidato”), ritrovasti il raggio

del Sol caduto, ...

... Ahi ahi, ma conosciuto il mondo

non cresce, anzi si scema, e assai più vasto

l’etra (= “aria”) sonante e l’alma terra e il mare

al fanciullin, che non al saggio, appare. (vv. 76-82, 87-90)

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