Alla sua Donna
Ultima delle Canzoni, “opera di 6 giorni” composta a Recanati nel settembre 1823 (dopo più di un anno di inattività poetica), fu pubblicata la prima volta nell’edizione di Bologna 1824. A partire dall’edizione di Firenze 1831 comparve separata dalle Canzoni, dopo gli Idilli, a segnare la conclusione della “prima parte” dell’attività poetica leopardiana.
Nell’Annuncio premesso alla ristampa delle Annotazioni alle dieci Canzoni nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano del settembre ’25, Leopardi scrisse alcune parole che con ironia toccano tutti i temi di fondo della Canzone:
La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio.
Si dovrà notare che nel Canto non mancano pessimistici riferimenti alla durezza del presente (“Fra cotanto dolore / quanto all’umana età propose il fato”, “io seggo e mi lagno / del giovanile error che m’abbandona”, “nel secol tetro e in questo aer nefando”, vv. 23-4, 36-7, 42), ma che essi sono attenuati da un tono di garbata ironia. E si noterà però anche che l’ironia non nasconde l’evidente, reale trasporto di Leopardi per l’immagine sognata della bellissima “sua” Donna (“che dell’imago, / poi che del ver m’è tolto, assai m’appago”, vv. 43-4).

