Amore e Morte
Canzone “libera” di quattro strofe, composta a Firenze forse nel 1833 e pubblicata la prima volta nell’edizione di Napoli 1835.
Appartiene al cosiddetto “ciclo di Aspasia”, all’interno del quale intrattiene rapporti particolarmente stretti con Consalvo (dove si legge: “Due cose belle ha il mondo: / amore e morte”, vv. 99-100) e con Il pensiero dominante (ma anche col Dialogo di Tristano e un amico, nelle Operette morali).
Inutile sottolineare quanto la riflessione di Leopardi sui concetti di amore e morte sia serrata, e come si esprima in moltissime sue opere; esplicitamente connesso al Canto si può almeno considerare un passo della lettera scritta proprio a Fanny Targioni Tozzetti il 16 agosto 1833: “l’amore e la morte sono le sole cose belle che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate”.
Nel Canto il tema è svolto in forma esplicitamente romantica, fin nella scelta per la bella Morte pietosa” (v. 98), “Bellissima fanciulla, / dolce a veder”, che “ogni gran dolore, / ogni gran male annulla”(vv. 8-11): se nel Pensiero dominante infatti l’amore era antiteticamente considerato sia “Dolcissimo” sia “terribile”, in Amore e Morte esso si svela quale “grave procella”; e al poeta, disingannato, non resta che invocare la Morte, l’unica che possa lenire i suoi “affanni”: “non tardar più, t’inchina / a disusati preghi, / chiudi alla luce omai / questi occhi tristi” (vv. 104-7).
Si noti però come Leopardi invochi sì di morire, ma solo al termine di una vita eticamente “eroica”: venga la Morte, ma lo trovi “erta la fronte, armato, / e renitente al fato”:
Me certo troverai, qual si sia l’ora
Che tu le penne al mio pregar dispieghi,
erta la fronte, armato,
e renitente al fato,
la man che flagellando si colora
nel mio sangue innocente
non ricolmar di lode,
non benedir, com’usa
per antica viltà l’umana gente (vv. 108-16).

