Ultimo canto di Saffo
Canzone composta a Recanati nel maggio 1822, “Opera di 7 giorni”, e pubblicata la prima volta nell’edizione di Bologna 1824 (all’ottavo posto, mentre nelle edizioni di Firenze 1831 e Napoli 1835 venne inserita dopo l’Inno ai Patriarchi).
Nel Canto si immaginano le estreme parole pronunciate dalla poetessa Saffo prima del suicidio (situazione analoga a quella del Bruto minore), causato dalla delusione per l’amore non corrisposto per Faone.
Leopardi, nel Preambolo alla ristampa delle Annotazioni alle dieci Canzoni nel “Nuovo Ricoglitore” del settembre 1825, scrisse che il testo “intende di rappresentare la infelicità di un animo delicato, tenero, sensitivo, nobile e caldo, posto in un corpo brutto e giovane”; ed è impossibile non cogliere in queste parole un nesso autobiografico: certo attraverso la figura di Saffo Leopardi espresse anche la propria disperazione, e le proteste del personaggio contro l’infelicità e l’ingiustizia della vita (nella quale viene apprezzata la bellezza più della virtù), e contro la natura, indifferente al dolore dell’uomo, sono anche le proteste del giovane Leopardi (vv. 23-7, 46-54):
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
infinita beltà parte nessuna
alla misera Saffo i numi e l’empia
sorte non fenno. ...
... Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor. Negletta prole
nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme
de’ più verd’anni! Alle sembianze il Padre,
alle amene sembianze eterno regno
diè nelle genti; e per virili imprese,
per dotta lira o canto,
virtù non luce in disadorno ammanto (= “in un corpo senza bellezza”).
La Canzone si segnala, rispetto alle precedenti, oltre che per la maggiore presenza del “sentimentale”, anche per la maggiore “scioltezza” stilistica (che pure non si allontana mai troppo dal “peregrino” che contraddistingue questi testi).

