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Gli “amici di Toscana”

fotografia Leopardi sperimentò a Firenze una vita di intense relazioni. Il tramite principale fu Gian Pietro Vieusseux (1779-1863), intellettuale di famiglia ginevrina che nella città fondò nel 1819 un Gabinetto Scientifico-Letterario e nel 1821 l’“Antologia”, la rivista che divenne autorevolissima portavoce del liberalismo moderato e progressista. Leopardi era entrato in contatto con lui nel ’24, dietro suggerimento di Giordani, proprio per partecipare alla rivista (ma gli unici testi pubblicati furono tre Operette, nel gennaio ’26). Giunto a Firenze nel giugno ’27, nel Gabinetto di Vieusseux conobbe molti degli intellettuali che si riconoscevano nel progetto dell’“Antologia”: tra gli altri, Giuseppe Montani, Giovan Battista Niccolini, Niccolò Tommaseo, e coloro che gli furono più intimi: oltre allo svizzero Louis de Sinner, il generale e storico Pietro Colletta (1775-1831) e Gino Capponi (1792-1876).

Colletta fu colui che offrì a Leopardi (dopo che le Operette morali nel ’28 non vinsero un premio di mille scudi bandito dall’Accademia della Crusca) un sussidio per un anno da parte degli “amici di Toscana”, grazie al quale egli poté lasciare Recanati.

Capponi, pedagogista e storico, sarebbe diventato il dedicatario della Palinodia, il Canto in cui Leopardi esprime il proprio totale disaccordo verso l’ideologia dei liberali fiorentini. Per una beffa del destino, infatti, Leopardi a Firenze poté godere della benevolenza di molti amici, ma contemporaneamente ebbe la prova di come il solco ideologico che lo separava da loro fosse sempre più largo. Così, alle espressioni di affetto e riconoscenza private (in molte lettere) e pubbliche (la dedica dei Canti del ’31: Agli amici suoi di Toscana), Leopardi contrappose una serie di opere in cui dolorosamente denunciò i miti del “progresso”, dell’“ottimismo” e del “liberalismo”, cioè proprio i concetti-cardine su cui si basava il progetto riformatore dell’“Antologia”: Tristano, Paralipomeni, Palinodia.

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