GIOVANNI BOCCACCIO

Il fecondo sodalizio intellettuale fra Petrarca e Boccaccio fu preparato da una fase di incubazione lunga più di un decennio, nel corso del quale i rapporti indiretti (ossia, concretamente, il passaggio di testi e notizie dall'uno all'altro) furono intessuti prima, con Boccaccio a Napoli (fino al 1340/41), da Dionigi da Borgo Sansepolcro e poi, con Boccaccio a Firenze, da Sennuccio del Bene. Primi documenti dell'ammirazione boccacciana per il futuro compagno di studi sono l'epistola Mavortis milex extrenue (del 1339), mera esercitazione retorica mai inviata al destinatario, il trattatello De vita et moribus Domini Francisci Petracchi de Florentia (abbozzato nei primi anni Quaranta, ma redatto in forma definitiva nel 1348/49), che è la più antica biografia di Petrarca, e forse la partecipazione al volgarizzamento di terza e quarta deca di Tito Livio nell'edizione petrarchesca (prima del 1346); è anche certa la dipendenza fra il sonetto 112 del Canzoniere e due ottave del Filostrato boccacciano, della quale resta però incerta la direzione. Un'ipotesi suggestiva, ma per nulla sicura, vuole che Boccaccio abbia assistito all'esame napoletano di Petrarca condotto da re Roberto d'Angiò nel 1341.
Solo nel 1350 Boccaccio ardì rivolgere all'ammirato collega una richiesta di suoi testi, alla quale Petrarca rispose con l'unica epistola in versi della sua corrispondenza con il certaldese (Epystole III 17), ricca di trenta lettere in prosa conservate e altre andate perdute (appare significativa, per contro, l'assenza di scambi poetici in volgare). La conoscenza diretta seguì di poco: nello stesso 1350 Petrarca, recandosi a Roma per il giubileo, passò da Firenze all'andata e al ritorno. L'amicizia nata allora con Boccaccio, solo temporaneamente scalfita dal trasferimento di Petrarca a Milano nel 1353 e dal conseguente sconcerto degli ambienti fiorentini, venne scandita da quattro successivi incontri (a Padova nel 1351 e nel 1368, a Milano nel 1359, a Venezia nel 1363) e da innumerevoli episodi.
Rilevante è, in primo luogo, la funzione svolta da Boccaccio nella diffusione delle opere petrarchesche: a lui venne concessa la prima trascrizione di Bucolicum carmen (che gli ispirò il suo Buccolicum carmen) e Itinerarium; possedette, o almeno conobbe in modo parziale, De vita solitaria (per la cui composizione fornì anche la sua assistenza), Invective contra medicum, De sui ipsius et multorum ignorantia, De viris illustribus, Trionfi e l'epistolario in versi e in prosa; esemplò di sua mano il codice da cui prende nome la forma Chigi del Canzoniere; tentò ripetutamente di convincere Petrarca a pubblicare l'Africa. Nella partita del dare vanno ricordate anche i doni di manoscritti: le Enarrationes in Psalmos agostiniane e la Commedia dantesca, quest'ultima accompagnata dal carme Ytalie iam certus honos e catalizzatrice di un pronunciamento aperto sul valore di Dante da parte di Petrarca (Familiares XXI 15). Insieme, ma con il decisivo concorso di Boccaccio (che ospitò nella sua casa fiorentina Leonzio Pilato), i due amici affrontarono l'impresa delle traduzioni omeriche.
Da parte sua, Petrarca fornì a Boccaccio un decisivo sostegno morale fra 1362 e 1363: prima placandone gli scrupoli che un messaggio del senese Pietro Petroni, morto in odore di santità, aveva instillato in lui, ammonendolo ad abbandonare lo studio delle lettere profane (Seniles I 5); poi consolandolo della delusione patita da un nuovo, breve soggiorno napoletano e del cattivo trattamento riservatogli da Niccolò Acciaiuoli. Un episodio più importante fu, nel 1373, la traduzione latina della novella di Griselda. Petrarca si ricordò di Boccaccio anche nel testamento, lasciandogli cinquanta fiorini d'oro "per un vestito invernale per lo studio e le veglie notturne" (1) ; e Boccaccio ne pianse la morte nel sonetto Or sei salito, caro signor mio.

(1) "pro una veste hiemali ad studium lucubrationesque nocturnas".

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